
Ogni anno, in Italia, miliardi di euro destinati al welfare pubblico restano inutilizzati. Non per scarsità di risorse, ma per una paradossale inaccessibilità.
Le agevolazioni esistono, sono previste da normative e regolamenti, ma restano spesso fuori dalla portata di chi ne avrebbe più bisogno. Questo fenomeno, che potremmo definire "welfare invisibile", rappresenta una delle più grandi contraddizioni del nostro sistema di protezione sociale.
Secondo i dati raccolti, più di 10 miliardi di euro all'anno in agevolazioni pubbliche e bilaterali non vengono richiesti. La causa principale? La complessità dei canali di accesso, la frammentazione delle informazioni e una burocrazia che sembra parlare una lingua sconosciuta alla maggior parte dei cittadini. In un contesto così dispersivo, accedere a un contributo, a una detrazione o a un sussidio diventa una vera e propria impresa.
Ma questa non è solo una questione tecnica. È una questione di democrazia.
A cosa serve un diritto, se non può essere esercitato? Il welfare, nella sua essenza, è un patto sociale: lo Stato si impegna a sostenere i cittadini nei momenti di bisogno. Quando questo sostegno non arriva, o arriva solo a chi è più attrezzato culturalmente e socialmente per districarsi tra norme e procedure, il patto si rompe.
Occorre allora ripensare il concetto stesso di accessibilità. Non basta che il diritto esista sulla carta: deve essere comprensibile, raggiungibile, effettivo. Serve una rivoluzione culturale, un'educazione civica diffusa che restituisca ai cittadini il senso e la conoscenza dei propri diritti.
Un welfare veramente inclusivo non si misura solo in termini di spesa pubblica, ma nella capacità di raggiungere chi ne ha più bisogno. E questo richiede, oltre alla digitalizzazione, un impegno etico e politico per costruire un sistema più umano, più giusto, più vicino.